Gli internati IMI

Nell’ambito della storia della deportazione particolare fu il fenomeno degli IMI, gli internati militari italiani, cioè i militari rastrellati e arrestati dai tedeschi nelle aree da essi controllate successivamente all’armistizio dell’8 settembre ’43, in territorio italiano, nella Francia sud-orientale, in Corsica, nei Balcani, in Grecia, nelle isole Jonie (Cefalonia e Corf.) ed Egee (Dodecaneso). A costoro fu chiesto di aderire alla neonata e fascista Repubblica Sociale di Salò e di continuare a combattere a fianco dei tedeschi, violando il giuramento di fedeltà fatto nei confronti del re: quelli che si rifiutarono vennero inviati al lavoro coatto in Germania e nei territori occupati.

Soltanto un’esigua minoranza aderì alla RSI, gli altri furono privati della dignità militare e delle garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra furono considerati “schiavi militari” e il loro trattamento fu disumano. Vennero impiegati in diverse mansioni: dallo sgombero delle macerie nelle città bombardate alla produzione bellica nelle numerose fabbriche, in miniere e cave. Dalle stime in continua revisione si ritiene che i militari italiani catturati dai tedeschi e internati nei Lager nazisti siano stati circa 600.000, di cui almeno 70.000 morirono per le condizioni disumane di vita, le angherie e le violenze.